Vocabolario Dantesco Latino
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att. con il signif. proprio di ‘uscire dal solco’, da cui poi si sviluppa il signif. fig. di ‘allontanarsi dalla retta via’ (ThLL s.v. deliro I); vd. ad es. (si riportano occorrenze significative anche del derivato agg. delirus): Caper Gramm. VII 109, 6 delirare et delerare ἀπὸ τοῦ λήϱου (CC); Char. Gramm. p. 97 Delirus a lira, aratri ductu, appellatur. Potest tamen delerus per e ἀπὸ τοῦ λήρου conpositum videri (CC); Vel. Gramm. VII 73 Sic etiam delirus placet Varroni, non delerus: non enim, ut quidam existimant, a Graeco tracta vox est, παρὰ τὸ ληρεῖν, sed a lira, id est sulco. Ita sicuti boves, cum se a recto actu operis detorserint, delirare dicuntur, sic qui a recta via vitae ad pravam declinant, per similitudinem translationis item delirare existimantur (CC); Non. p. 17 delirare est de recto decedere. Lira est fossa recta, quae contra agros tuendos ducitur et in quam uligo terrae decurrit (Mirabile); Prob. App. gramm. IV 198, 19 delirus non delerus (CC). È ben att. anche il signif. di ‘delirare, dire assurdità’ (ThLL s.v. deliro II).
NOTA:
V. ben att. nel lat. class. e nel mediolat., composto dal prefisso de-, che indica l'allontanamento, e dal v. liro -are, termine tecnico del lessico agricolo che indica l'azione di «ripassare su un terreno già arato e seminato trascinando coi buoi un arnese che copre i semi e traccia solchi di scolo» (Conte), a sua volta derivato dal sost. lat. lira, ‘cumulo di terra compreso tra due solchi’. Il signif. etimologico di deliro, dunque, è quello di ‘uscire dal solco, uscire dal seminato’ (così Uguccione: «deliro -as, desulcare, a sulco deviare»). Da questo signif., come rilevano i grammatici antichi, si sviluppa l'accezione fig. e morale di «de recto decedere», «a recta via vitae ad pravam declinare» e dunque ‘deviare dalla giusta direzione, dalla retta via’ (con questa valenza il v. è impiegato anche dai commentatori della Commedia) e si genera anche il signif. di ‘allontanarsi dal solco della ragione, impazzire’. L’azione di ‘sragionare’ (e quindi l'essere delirus) viene considerata propria di coloro che sviano dall'ordine retto oppure delle persone anziane, che sono affette da demenza a causa dell'età (vd. Corrispondenze). Nel lat. epistolare il v. deliro ricorre raramente e per lo più negli autori cristiani e nelle lettere pontificie, con particolare rif. agli eretici e ai blasfemi che ‘sragionano, vaneggiano’ e ‘dicono assurdità’ (vd. alcuni ess. in Corrispondenze).
Il v. è att. nella latinità anche nella variante morfologica delero (allo stesso modo per il deverbale delirus è att. la forma delerus, schedata come erronea nell'Appendix Probi), sviluppatasi probabilmente a causa della paretimologia che farebbe derivare il v. deliro e l’agg. delirus dal v. greco ληρεῖν ‘sragionare, parlare o agire insensatamente’ (così Isid. Orig., ma vd. anche Caper Gramm. e Char. Gramm., i quali fanno derivare il v. e l'agg. dal sost. greco λῆρος, -ου ‘sciocchezza, delirio’). Ma come precisa Velio Longo l'agg. (e dunque anche il v. da cui deriva) non ha un’origine greca da ληρεῖν, ma è termine dipendente dal sost. lat. lira. Data la presenza nella lingua lat. dei sost. lyra/lĭra (strumento musicale dal greco λύρα) e līra (solco di terra), i grammatici mediev. specificano anche che deliro deriva dal sost. lat. līra e non dal greco lyra/lĭra (vd. Eberardo, Uguccione, Balbi, Corrado di Mure).
Nel lat. dantesco deliro registra due occorrenze nelle Epistole (il codex unicus V tramanda in entrambi i luoghi la corretta forma delirantis) e si carica di una precisa connotazione politica, perché è impiegato per indicare l’azione di chi si oppone alla guida dell’imperatore, espressione della volontà di Dio, e si allontana dunque dalla giusta via. In Ep. VI 12 l’Italia (= Hesperia) è definita delirans perché i suoi governanti e i suoi abitanti, seguendo l’esempio della ribelle Firenze, si oppongono al potere imperiale lasciandola andare fuori strada. Per esprimere lo stesso concetto, al par. 3 D. aveva impiegato il v. tecnico dell'astronomia exorbito con il signif. fig. di ‘allontanarsi dalla retta via’ («solio augustali vacante, totus orbis exorbitat»). È verosimile che nella scelta dei v. tecnici exorbito e deliro, entrambi inusuali nel lat. epistolare, abbia influito la lettura del passo di Uguccione, sicura fonte dantesca, il quale colloca deliro ed exorbito sullo stesso piano semantico, servendosi di exorbito come sinonimo esplicativo di deliro. Simile è il contesto dell’occorrenza di deliro in Ep. VIII 5: la contessa Gherardesca prega che Dio possa riformare, attraverso l'imperatore Enrico, l'umanità del suo tempo che ‘devia dalla giusta direzione’. Sembra dunque più probabile che deliro nel lat. dantesco assuma l'accezione fig. morale di ‘deviare dalla giusta direzione, allontanarsi dalla retta via’ (così come il sinonimo exorbito, anch’esso lemma esclusivo delle Epistole), piuttosto che quella di ‘delirare, essere folle’, come traducono alcuni editori (ad es. l'espressione delirantis Hesperie viene tradotta con “delirante Esperia” da Frugoni e Lokaj e “folle Esperia” da Villa; più vicine al signif. etimologico e fig. morale del v. le traduzioni “tralignante Esperia” di Pastore Stocchi e “Italia che va fuori strada” di Baglio).
Con il signif. di «discostarsi dal modo corretto (di ragionare)», il v. ricorre anche in volgare in Inf. XI 76, ma è privo dell’accezione politica che si rileva invece nelle Epistole. La primogenitura dantesca del latinismo delirare è dubbia (il v. è att. prima di D. in Pietro Morovelli, ma si tratta di una lezione incerta), risulta invece prima att. l'agg. volgare deliro ‘vaneggiante, in preda al delirio’ di Par. I 102 (calco evidente del lat. delirus, ampiamente att. con il signif. di amens, demens ma non usato da D. nel proprio lat.). Dopo D. i due lemmi volgari sono att. nei commentatori del poema e si affermano nella lirica italiana del Trecento: vd. delirare e deliro in VD.