Vocabolario Dantesco Latino
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Isid. Orig. XI 1, 58-59: Rumen proximum gurgulioni, quo cibus et potio devoratur. Hinc bestiae, quae cibum revocant ac remandunt, ruminare dicuntur; XII 1, 37 Ruminatio autem dicta [est] a ruma, eminente gutturis parte, per quam dimissus cibus a certis revocatur animalibus (Mirabile).
Papias (s.v. rumen, ruminat): rumen proximum est gurgulioni, quo cibus et potio devorantur, unde bestiae ruminare dicuntur. Ruminat: remandit, regustat. Rumino et ruminor idem significabat antiquitus (Mirabile).
Uguccione R 54, 27-28 (s.v. ruo): rumino -as, idest cibum ad rumen revocare, sed a ruma rumo -as, unde rumito -as frequentativum, et ponitur quandoque ruminare vel rumare pro diligenter examinare (DaMA).
Balbi (s.v. rumino) = Uguccione (Mirabile).
NOTA:
Hapax nel lat. dantesco, utilizzato in Eg. II 60 in rif. all’ovis che rumina e digerisce l’erba brucata durante il pascolo. L’uso del v. in senso letterale è att. nel lat. class., in ambito bucolico in Verg. Ecl. VI 54, su cui è ricalcata la clausola dantesca; al riguardo cfr. il commento di Serv. ad loc.: «pallentes ruminat herbas revomit et denuo consumit [...]. Ruminatio autem dicta est a rumine, eminente gutturis parte, per quam demissus cibus a certis revocatur animalibus». In questa accezione il v. è concordemente interpretato anche dai lessicografi mediolatini, che a partire da Uguccione fanno riferimento anche al signif. fig. del termine: «ponitur quandoque ruminare vel rumare pro diligenter examinare» (Uguccione R 54, 28, con analoga formulazione in Balbi). Nel lat. mediev. diviene prevalente l’accezione fig. del v., nel signif. di 'meditare, richiamare alla memoria' (cfr. Du Cange; DMLBS s.v. ruminare), o comunque la sua interpretazione in chiave metaforica anche quando sia rif. al processo di digestione animale. La ruminatio viene così a definire la lettura e la meditazione dei testi sacri, con codifica del termine in ambito retorico (cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theol. q. 102, a. 6, r. 1: «Ruminatio autem significat meditationem Scripturarum, et sanum intellectum earum», LLT-A). In questa accezione può essere riletto il v. dantesco, che, inserito nella metafora bucolica dell’ovis gratissima (cfr. ovis in VDL), farebbe rif. a «un’opera ormai conclusa e in fase di revisione finale, il che si addice solo al Paradiso» (Albanese Eg., p. 1721).
Il v. trova corrispondenza nel volgare ruminare (o rugumare), att. nella similitudine bucolica di Purg. XXVII 76; 91 «Quali si stanno ruminando manse / le capre, [...] tali eravamo tutti e tre allotta, / io come capra, ed ei come pastori. / [...] / Sì ruminando e sì mirando in quelle, / mi prese il sonno». Anche in questo caso, al valore letterale della prima occorrenza, riferita alle capre e al loro processo digestivo, si affianca la valenza fig. di “ripensare alle cose trascorse” (cfr. ruminare in ED).
Il v. è utilizzato anche dai commentatori danteschi, perlopiù in rif. a Purg. XVI 98-99 «Nullo, però che ’l pastor che procede, / rugumar può», dove viene spiegato con il richiamo al passo biblico di Lv. 11, 3-4 (cfr. Pietro Alighieri, Benvenuto da Imola ad loc.).
Nella tradizione bucolica successiva, il termine trova att. con signif. fig. in Petrarca, Buc. XII 53 «Muliebribus ardens / atque imbuta odiis, occultas ruminat iras» (Poeti d’Italia); in rif. ad animali bucolici in Boccaccio, Bucc. III 40 «et tu / si cantet phylomena petis, si ruminet hyrcus!» (Poeti d’Italia); VI 81 «Ruminat omne pecus, pueri campique quiescunt» (Poeti d’Italia); e, nella pastorale quattrocentesca, in Pontano, Egl. III 54 «cum ruminat omnis / grex simul et pastae suspirant pignora matres» (Poeti d’Italia).