Vocabolario Dantesco Latino
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NOTA:
Il sost. lat. error è impiegato da D. in uno spettro di signif. in tutto simile a quello del suo corrispondente volgare (cfr. ED, L. Onder). Da un lato, infatti, indica un'opinione falsa che si traduce in conseguenze nocive e a loro volta errabonde sul piano etico (ad es. una pervicace opposizione all'Imperatore, come nel caso di Ep. VII 22 e Mon. III xiii 1). Dall'altro, viene talvolta associato a un «falso imaginar» che produce una vana credulitas (come quella tipica del volgo - ricordata in Ep. XIII 7 - che ritiene la grandezza del sole pari a quella di un piede).
In Mon. III iv, inoltre, D. introduce una vera e propria teoria dell'errore dal punto di vista logico-argomentativo. Conformandosi all’uso tipico della quaestio, infatti, formula un’osservazione preliminare relativa al metodo che intende seguire nella confutazione degli argomenti avversari. Citando direttamente gli Elenchi Sofistici, dichiara che un’argomentazione può dirsi confutata quando viene reso evidente il suo error, che può risiedere o nella materia o nella forma del sillogismo. Nella materia, questo avviene quando si assume il falso (assummendo falsum). Nella forma, quando non si sillogizza correttamente (non sillogizando) – quando, cioè, non si rispettano le clausole definitorie del sillogismo (III iv 4). Da questa classificazione, l'Alighieri deduce poi, come noto, due diverse tecniche di confutazione. Se l’error è in forma, si tratta allora di dimostrare che la forma del sillogismo non è stata servata. Se l’error risiede in materia, cioè nella falsità di una o entrambe le premesse, ci si può trovare di fronte a due casi distinti: (i) o come premessa si è assunto qualcosa di falso in senso assoluto, simpliciter; (ii) o si è assunto qualcosa di falso secondo un certo punto di vista, secundum quid. La strategia, di conseguenza, sarà quella di demolire la premessa completamente falsa nel primo caso (vd. interemptio); di distinguere ciò che c’è di falso da ciò che c’è di vero nel secondo (vd. distinctio), mostrando come la verità della premessa non possa comunque esser fatta valere in assoluto: «Si vero in forma sit peccatum, conclusio interimenda est ab illo qui solvere vult, ostendendo formam sillogisticam non esse servatam. Si vero peccatum sit in materia, aut est quia 'simpliciter' falsum assumptum est, aut quia falsum 'secundum quid'. Si 'simpliciter', per interemptionem assumpti solvendum est; si 'secundum quid', per distinctionem» (III iv 5). È sicuramente vero che D., come di solito notano gli interpreti, desume questa dottrina «direttamente» dal capitolo 18 degli Elenchi Sofistici. È stato ampiamente trascurato, tuttavia, il modo del tutto personale in cui riformula la sententia aristotelica. In primo luogo, D. si serve di una terminologia di per sé assente dalla littera degli Elenchi Sofistici e caratteristica, invece, della tradizione esegetica a lui coeva. Questo non vale solo per l’equiparazione, in materia probabili, di inoppinabili e falsum, ma anche per la considerazione dell’errore in materia a partire dalla falsità delle premesse (anziché da quella della conclusione). Di particolare rilievo, inoltre, è l’uso della distinzione peccans in materia / in forma, tramandata, fra gli altri, da Alberto Magno, Egidio Romano, Simone di Faversham e presente, fra l’altro, anche nel commento alla Fisica di Tommaso. Proprio quest’ultima occorrenza merita una speciale attenzione, non solo per la conoscenza diretta che probabilmente Dante ebbe di quest’opera, ma anche per il suo trovarsi riferita, proprio come nel passo della Mon., alle sophisticae rationes di Melisso e Parmenide(«probat ergo primo propositum per hoc quod non exigitur in aliqua scientia ut solvantur rationes sophisticae, quae manifestum defectum habent vel formae vel materiae. Et hoc est quod dicit, quod simile est intendere ad improbabiles rationes aut etiam solvere rationem litigiosam, idest sophisticam. Hoc autem quod sint sophisticae, habent utraeque rationes et Melissi et Parmenidis: peccant enim in materia, unde dicit quod falsa recipiunt, idest falsas propositiones assumunt; et peccant in forma, unde dicit quod non syllogizantes sunt», Tommaso d'Aquino, In Arist. Phys. I, l. 2, n. 6). In secondo luogo, poi – e questo di solito non viene rilevato nei commenti – Aristotele indica il fare distinzioni come la tecnica specifica per confutare i sillogismi che contengono un vizio secondo la forma. Per il Poeta, invece, tale strategia va applicata all’errore in materia e, più precisamente, alle premesse che sono false secundum quid.