rivo, -are (v.)

1. mettere ai ferri, rivettare (cfr. Villa, La testa del chiodo).
Ep. VI 26 Igitur tempus amarissime penitendi vos temere presumptorum, si dissimulare non vultis, adesse conspicitis. Et sera penitentia hoc a modo venie genitiva non erit, quin potius tempestive animadversionis exordium. Est enim quoniam peccator percutitur, ut “sine retractatione moriatur [rivantur V]”.
Ep. 1

riva[n]tur, Ep. VI 26

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Hapax nel lat. dantesco, denominale da rivus. La lezione tràdita dal ms. V, rivantur, ha suscitato un’intensa attività emendatoria, poiché ritenuta inaccettabile sia dal punto di vista sintattico-grammaticale (il plurale non si spiega, essendo il soggetto singolare, e il tempo verbale in dipendenza da ut, secondo Reeve, Testimoni unici, p. 10, a norma della sintassi classica dovrebbe essere un congiuntivo, non un indicativo), sia sul piano semantico (il v. rivo è molto raro e comunque usato nel primo significato letterale di “deviare un corso d’acqua”, mentre solo i recenti studi di Claudia Villa ne hanno certificato la presenza nel mediolatino anche nel senso tecnico di ‘ribattere la testa del chiodo, rivettare’ nel gergo professionale degli artigiani).

Già Torri nel 1842, seguito dagli editori ottocenteschi (Fraticelli, Giuliani, Moore), poneva tacitamente a testo la congettura revertatur, traducendo «perciocché il peccatore è percosso, affinché senza ripugnanza torni al ben fare». L’emendamento, sebbene si giustifichi sotto il profilo della fenomenologia paleografica dell’errore, non rispetta tuttavia le regole di una clausola canonica in fine di periodo. Proprio per realizzare un cursus planus con un trisillabo parossitono, Meyer (1905) suggerì di correggere rivantur con perdatur, ‘venga ucciso’. Successivamente, Moore (1917), riconoscendo nel passo dantesco una citazione biblica da 1 Sam. 14, 39 («absque retractatione morietur»), propose l’emendamento moriatur, accolto dalla maggior parte degli editori (Toynbee, Pistelli, Monti, Frugoni, Pastore Stocchi, Baglio). La congettura moriatur, soddisfacente sotto il profilo semantico (traduzione Pastore Stocchi Ep., p. 53: «sta infatti scritto che il peccatore si colpisce affinché “senza remissione muoia”»), tuttavia non rispetta le regole ritmiche (in quanto quadrisillabo parossitono preceduto dal polissilabo parossitono retractatióne crea una clausola di trispondaicus) e non dà contezza dell’origine della corruttela: il passaggio da moriatur a rivantur è paleograficamente inspiegabile e per questo motivo Moore ipotizzava un danno materiale dell’archetipo. Sulla base di Sal. 38, 9 («Ab omnibus iniquitatibus meis erue me»), Pézard (1979) suggeriva invece di correggere rivantur con eruatur, modificato poi da Kelly (1989) nel trisillabo ruatur per ottenere una clausola di planus. La congettura ruatur, con il signif. di «venga travolto», «sommerso», è stata proposta anche da Chiesa (2012), poiché ritenuta paleograficamente spiegabile e corretta sotto il profilo ritmico e semantico. Brilli (2007) ha poi proposto la congettura puniatur (il peccatore «sia punito senza indugio») sulla scorta di una più larga citazione letterale dalla prefazione ai Moralia in Iob di Gregorio Magno (V 12: «percussionum quippe diversa sunt genera. Alia namque est percussio, qua peccator percutitur ut sine retractatione puniatur»). Il mancato rispetto delle regole del cursus (puniatur crea una clausola di cursus trispondaicus, polisillabo + quadrisillabo parossitoni, retractatióne puniátur, e non una clausola di planus come afferma Brilli) sarebbe giustificato dalla ripresa letterale di Gregorio Magno. Già Di Capua, Tre note, p. 396, a proposito di questo passo, precisava che D. «non è così schiavo del cursus da non tollerare, in una reminiscenza biblica, una cadenza ritmica secondaria». Diversamente Chiesa, L’impiego del cursus, p. 298: «pare strano che lo scrittore vada a concludere uno dei suoi testi più retorici con una violazione patente della clausola»; e ancora a p. 299 «l’emendamento migliore è qui quello che si realizza con un trisillabo o un pentasillabo piano» dato che nelle Epistole «l’impiego del cursus è marca stilistica costante». Sulla base di un altro passo di Gregorio Magno suggerito come fonte (Moral. X XXXI 54: «Qui enim diu convertendos expectat, non conversos sine retractatione cruciat»), Montefusco (2011) ha proposto la congettura cruciatur (= ‘sia tormentato’). Più recentemente, Reeve, Testimoni unici, pp. 101 (2019) ha difeso la congettura di Brilli, precisando che il passo di Gregorio Magno è citato anche nella Catena aurea di Tommaso d’Aquino e che in presenza di una citazione letterale è probabile che D. non osservasse il cursus e a supporto di questa congettura giunge anche a «ipotizzare la caduta ad esempio di una riga dell’antigrafo davanti a “rivantur”».

Claudia Villa, che nell’ed. 2014 aveva segnato in questo luogo una crux desperationis, nel 2019 (La testa del chiodo) ha proposto di ritenere valido sotto il profilo semantico il v. rivo della lezione tràdita, attribuendo ad esso il signif. fig. di ‘mettere ai ferri’, sulla scorta del v. tecnico mediolat. rivare e dell’uso letterario dei v. romanzi river e ribar (vd. Corrispondenze), senza tuttavia addentrarsi nel problema ecdotico dell'anomalia sintattico-grammaticale causata dall'indicativo plurale rivantur (Villa, La testa del chiodo, p. 451: D. minaccia i Fiorentini perché «chi si ribella al principe deve essere abbattuto e il peccatore è punito in quanto è messo ai ferri senza possibilità di replica: o, meglio, ferocemente “rivettato”, come le teste dei chiodi che non possono più essere estratte»; concorda con il restauro e l’interpretazione di Villa anche Petoletti, Prospettive filologiche, pp. 75-76; sul lemma cfr. anche Albanese, Nel cantiere, p. 43). Sulla questione è recentemente tornato anche l'ultimo editore Grévin, il quale, non convinto della proposta di recupero del v. tràdito di Villa (p. 678: «Rivare n’est pas documenté en toscan, rarissime en latin, et dépend d’exemples techniques en langue d’oïl. Cette proposition ingénieuse me semble donc un peu forcée»), nell’ed. del 2023 ha promosso a testo una nuova congettura, ringatur (trad. p. 76: «le pécheur est frappé pour qu’il gronde [du grognement des damnès] sans s’être rétracté»), riconducendo il v. ringor ‘ringhiare, mostrare i denti' al v. volg. ringhiare, utilizzato da D. in Inf. V 4 per descrivere il comportamento di Minosse di fronte ai dannati («Stavvi Minò orribilmente, e ringhia») e ipotizzando quindi «une sorte d'actualisation de la comparution prochaine des Florentins devant Minos»: cfr. Grévin Ep., pp. 77, 405, 674-680.

Alla luce dell’analisi linguistica, che conferma la presenza del lemma tràdito dal testimone unico V nel mediolat. e nelle lingue romanze, il v. tecnico rivo potrebbe essere accolto nel lessico dantesco, dato che il ricorso ai linguaggi tecnici delle ‘scienze dure’ e dei mestieri pratici è procedimento retorico comune nelle Epistole di D. (vd. Vagnoni, Sperimentalismo), e non fa difficoltà l’indicativo, dato che nella sintassi mediolat. è normale lo scambio indicativo/congiuntivo in dipendenza da ut; Villa, La testa del chiodo, p. 449 ipotizza anche che ut possa avere qui valore avverbiale: «Per quanto riguarda la possibilità di conservare il verbo, senza bisogno di emendamenti sembra opportuno correlare il colpo ricevuto del peccatore (peccator percutitur) con l’effetto della potente ribattitura, dichiarata con formula giuridica sine retractatione; e introdotta da ut con valore avverbiale».

moriatur] rivantur V, revertatur con. Torri Ep. (Fraticelli Ep., Giuliani Ep., Moore Ep.), perdatur con. Meyer, Über Ursprung, moriatur con. Moore, Studies IV (moriatur rell. edd.; crucem statuit Villa Ep. 2014), eruatur con. Pézard, La rotta gonna, ruatur con. Kelly, Tragedy and Comedy, Chiesa, L’impiego del cursus, puniatur con. Brilli, Reminiscenze scritturali (Reeve, Testimoni unici), cruciatur con. Montefusco, Le Epistole di Dante, ringatur con. Grévin Ep. 

Ritiene ora accettabile il v. rivo VillaLa testa del chiodo 2019: cfr. Nota

Voce corrispondente nelle opere volgari di Dante:
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Latino classico e tardoantico:

termine raro, att. nel lat. tardoant.; i lessici moderni (Forcellini, Gaffiot, Lewis-Short, Blaise Patr., Souter s.v. rivo) lemmatizzano il v. rivo, -are, att. nella bassa latinità in Paolino da Nola nell’accezione specifica di ‘deviare, far scorrere un corso d’acqua’: Paul. Nol. Carm. 21, 667 condita perductos rivaret in atria fontes (MqDq).

Latino medievale:

nel lat. mediev. il v. subisce slittamenti di diatesi e di signif.: vengono infatti lemmatizzati dai dizionari di lat. mediev. (Du Cange e DMLBS s.v. rivari) sia il v. deponente rivari, att. in epoca altomediev. con il valore fig. di «instar rivi fluere», come ad es. in Vita Sancti Guthlaci, «Dum alii plurimi Anglorum librarii coram ingeniositatis fluenta inter flores Rhetoricae per virecta litteraturae pure, liquide lucideque rivantur, qui melius luculentiusve conponere valuerunt» (Du Cange), sia rivare con diatesi attiva che, in endiadi con clavare, ricorre nel Basso Medioevo in un’ordinanza di Filippo il Bello come v. tecnico del lessico degli artigiani per indicare l’attività di «clavi mucronem retundere»: Charta ann. 1307, «Declarantes, quod licet dicti sellarii sui officii ratione… non possint nec strigiles, seu estrivos, buculas, mordacia, cappas seu clavos facere aut fabricare, ipsi tamen, si sint bona et legalia, emere, acquirere seu habere poterunt… et ea in sellis et bastis suis ponere, clavare et rivare, et sellas et basta sua ex eis munire et preparare poterunt» (Du Cange). Il signif. tecnico è att. anche nei v. romanzi river (antico francese) e ribar (antico provenzale), quest’ultimo registrato alla metà del Duecento nella grammatica del Donatus provincialis: «ribar .i. clavos repercutere» (cfr. Villa, La testa del chiodo, p. 448).

Lessicografi medievali:

i lessicografi mediev. non registrano rivo, ma solamente i composti derivo dirivo:
Papias (s.v. derivare): Derivare, de rivo ducere, dividere, producere (Mirabile).
Uguccione, R 54, 9 (s.v. ruo): Item a rivus per compositionem dirivo-as et derivo -as, et differunt: derivare est rivum de fonte ducere, sed dirivare est fontem in diversos rivulos ducere; dirivatur ergo grecismus in latinitatem, idest quasi fons in rivulos ducitur, sed latinitas derivatur a grecismo, idest quasi de fonte ducitur. Similiter dictio primitiva dirivatur, quia quasi fons in diversos rivulos ducitur, sed dictio derivativa derivatur, idest quasi de fonte rivus ducitur (DaMA).
Balbi (s.v. derivo) = Uguccione (Mirabile).

Uguccione istituisce tra derivo e dirivo una precisa differenza semantica e li utilizza per spiegare la teoria della derivatio, la cui fenomenologia viene descritta nel Medioevo proprio attraverso la metafora dell’acqua sorgiva (vd. ad es. anche Pietro ElìasSumma super Priscianum, I, 114.5-6: «Derivare compositum est a ‘de’ et ‘rivo’. Derivare namque proprie est ‘rivum de fonte ducere’ et inde methaphorice translatum est ad dictiones»; su questo argomento cfr. BiondiEspressioni metaforiche).

Commentatori danteschi:
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Autore: Elena Vagnoni.
Data redazione: 01.06.2021.
Data ultima revisione: 08.06.2023.